di Serena Guadalupi
Lo ammetto subito, sgombrando il campo da ogni possibile malinteso: sono nata parecchio sotto al Po e vivo a Milano, esclusa qualche pausa di riflessione consensuale, da undici anni.
Quando sono arrivata in quella che fino al 21 febbraio del 2020 era la Capitale Morale d’Italia ero piuttosto consapevole che in qualunque condominio, palazzo, casa di ringhiera avessi abitato dal Manzanarre al Giambellino, da Porta Romana al Reno, non avrei certo ritrovato lo spirito di certi cortili di primavera, con panni stesi ad asciugare al sole che tanto cari sono a noi figli dei figli dei Borboni. “Milano, zucchero e catrame”.
In effetti non avevo idea di chi fossero i miei vicini di casa, non sapevo che faccia avessero. Anziani? Giovani? Di mezza età? Avvocati? Designer? Architetti? Giovani manager in ascesa? Non ne sapevo nulla. Non ero mica nella mia ridente cittadina del basso Adriatico dove il vicino di casa con cui hai meno confidenza ha come minimo battezzato tuo fratello.
L’unica cosa che conoscevo erano le loro spiccate doti culinarie (tornando da lavoro ogni sera dalla loro porta blindata, chiusa a tripla mandata, passava un profumo tale che più di qualche volta mi sono dovuta frenare dal presentarmi alla loro porta con qualche sale o zucchero finito per farmi invitare a cena). Alle loro doti culinarie si univano casse di vuoti a rendere ed una certa attitudine ad accumulare serialmente ombrelli. Non so quante persone abitino in quell’appartamento, ma posso ragionevolmente stimare che non siano meno di dieci. Perché dieci è il numero degli ombrelli accatastati sul Pianerottolo.
Mai musica, mai televisione ad alto volume, mai una lite. Nulla di nulla. Il silenzio cosmico.
Nella mia testa i miei vicini di casa erano persone dal palato raffinato, attenti alla loro ritenzione idrica e spaventati dai cambiamenti climatici e le bombe d’acqua.
Tutto questo fino al 9 marzo. Il giorno in cui è iniziata la mia quarantena. Il giorno in cui è calato il silenzio su Milano. Un silenzio impressionante, angosciante e sordo, rotto solo dalle sirene spiegate delle ambulanze.
Da Trieste in giù abbiamo sentito la necessità di rompere questo silenzio insopportabile facendo una di quelle cose che a noi italiani viene particolarmente bene: cantare. Pizza, pasta e Mandolino, no? (A ben vedere, tra performance canore e panificazioni di ogni tipo, tutti questi stereotipi li abbiamo rispettati alla grande durante la quarantena. Tutto si può dire su di noi, ma non che non siamo coerenti).
Uscendo fuori al balcone durante il classico appuntamento della Prima settimana di quarantena per apprezzare le doti canore di viale Abruzzi, tra Inni di Mameli, “Azzurri”, #andràtuttobene e “ce la faremo” urlati a squarciagola, ho avuto il mio primo incontro ravvicinato con un abitante dell’appartamento vicino al mio: l’esemplare femmina dei vicini di casa.
La tipa che presumibilmente cucina manicaretti incredibili, maniaca degli ombrelli e dell’acqua che elimina l’acqua si è palesata davanti a me. Secca come un chiodo (“mi sa che non è lei che mangia in quella casa, saranno gli altri nove”, ricordo di aver pensato). Entrambe rapite dai cori, dalle canzoni, in quell’aria di quasi primavera, da gente che urlava con i megafoni, dal trasporto emotivo del momento, ci siamo guardate, ho abbozzato un sorriso per salutare, quando sembrava che stesse per rispondermi sorridendo, ho capito che stava registrando un messaggio vocale su whatsapp.
Sono rimasta come quelli che si sbracciano per salutare con la mano poi si rendono conto di aver osato troppo e fanno finta di aggiustarsi i capelli per recuperare un po’ della dignità perduta in quello slancio non ricambiato.
Ho simulato un colpo di tosse ma ho subito sagacemente intuito che quel gesto non era esattamente una grande idea. (Già vedevo Burioni, Asl, Jimmy Fontana e Gallera che provava a vendermi una batteria di pentole con cambio Shimano irrompere in casa mia tipo SWAT per farmi un tampone. Che ingenuità, a pensarci ora).
Dopo quel fugace incontro sul balcone, non ho avuto più alcun contatto con i miei vicini di casa (i flash mob dalle finestre sono rapidamente passati di moda già la seconda settimana di quarantena, per fare posto alla più proficua attività di lancio di pietre al runner). Ma li ho conosciuti e loro hanno conosciuto me in modi completamente inaspettati.
Abbiamo scoperto, con stupore, che i muri dei nostri appartamenti sono così sottili da poter conoscere tutte le abitudini, anche quelle nuove.
E mentre i giorni volavano “confusi e inquieti come mosche a tavola”, Conte chiudeva l’Italia, file di camion dell’esercito uscivano dolorosamente da Bergamo e gli italiani cominciavano a comprendere che cosa scrivere nell’autocertificazione non sarebbe stato il maggiore dei loro problemi, io e i miei vicini ci siamo conosciuti.
Ho conosciuto le loro call di domenica mattina con i nipotini (che hanno evidenti problemi con l’alfabeto: “che lettera va dopo la C di Chiesa?” “la iiiii” “noooo, è muta” “la iiiii”) e loro hanno conosciuto le mie video chiamate con le mie colleghe la mattina e il pomeriggio tutti i santi giorni; hanno conosciuto le mie conversazioni colorite con i miei amici della cittadina di cui sopra, nell’idioma locale ( sono certa che qualche parola in dialetto ormai la conoscano); ho capito ad un certo punto della quarantena che si stavano sopportando poco (“vado a fare la spesa” “no, vado io” “ma lo dico per te” “anche io lo dico per te” “allora porto fuori il cane” “ma noi non abbiamo un cane” “ecco, perché non abbiamo un cane??”); ho capito che hanno un’opinione poco positiva del Governo Conte (“ma sto c***o di decreto quando esce?”); loro conoscono ogni segreto industriale della società per cui lavoro; sia io che loro abbiamo cantato tanti auguri a te alle persone care che hanno compiuto gli anni in quarantena. Ma soprattutto loro hanno dovuto sopportare le mie schitarrate disperate ad ogni ora del giorno e della notte e la mia musica sparata a tutto volume con vinili che saltavano ogni tre per due (“tu chiamale se vuoi,emozioni..emozioni,emozioni,emozioni, emoz…”).
Una volta, credetemi è accaduto, ho starnutito e mi hanno risposto dall’altra parte “salute”.
Questa quarantena ci ha consentito di conoscere, nostro malgrado, particolari, nevrosi, manie e quotidianità che probabilmente non sono noti neanche alla persona più vicina a noi.
Ma non abbiamo mai varcato quella soglia per paura, pudore, timore di sembrare invadenti.
Mi piace immaginare che abbiano pensato, come ho fatto io in preda ai fumi da panificazione con la farina ovunque che sembravo Al Pacino in Scarface, di suonare al campanello per offrirmi qualche loro manicaretto.
Nel linguaggio social tutto questo che ho raccontato è l’atteggiamento tipico del lurker, uno che osserva la comunità virtuale senza intervenire direttamente. Mia nonna lo avrebbe definito spione. Ma tant’è.
Ecco, io e i miei vicini ci siamo lurkati per tutta questa quarantena, ma non abbiamo mai superato la soglia di quel muro, di quella porta. Non siamo andati oltre.
È solo pudore? O è disinteresse verso quello che accade a chi vive accanto a te. Non lo so, ma lo voglio scoprire.
Ho guardato le previsioni, la prossima settimana piove. Penso che ruberò gli ombrelli, magari stavolta mi vengono a suonare..che da lurker a stalker il passo è breve.