tratto dai racconti di Rocco Griesi
Per gentile concessione di Giuseppe, a cui mi lega stima, profonda amicizia e grande reciproco rispetto nato fra i banchi delle scuole elementari. A Lui, al Professore, al Sindaco, allo Zio, all’amico di famiglia, a Rocco. Sorrido. A presto (F.L.)
Mi sono cimentato come un gigante di carta pesta col tema del tempo, il nostro antenato, o il nostro figliastro, e ne esco lucidamente sconfitto, ma sereno; non rinnego gli stracci di storia che puzzano d’anima ai piedi del K2, e non nascondo la paura che provo nell’arrampicarmi lungo le feritoie di quella montagna che allontana da sé i languori della vita; ma salgo, e trovo spuntoni di roccia, antichi segni rigattieri e il rigoletto del tempo, che mi spingono in alto o mi strattonano verso il basso; è che lui, il tempo, è un furbo Arsenio Lupin, un intelligente Diabolik che sa giocare la sua partita finale, fino alla fine… Lo so, è un avversario senza elmetto, un cowboy senza cinturone, un elegante signore senza identità, che senti nella puntura di un ago, nel chiasso di un brindisi; si annida quando dormi nelle tue orecchie, e ti spegne la sveglia o accende l’insonnia; è un cavaliere solitario, è vittima carnefice e becchino, labile calanco, stele e tugurio.È… il tempo. A lui, la mia riconosciuta sconfitta
A sorpresa, qualcuno mi dice: “È un autunno triste”. “Non è questo un autunno”, dico, dico: “ma una sporca coda d’estate; ho una broncopolmonite”. “Non fumare”, chiude. E quando poesia e malattia si incontrano in alto vola l’incesto più alto, dopo Edipo.
I vizi sono i dati più trasparenti, anche quando si cerca di camuffarli; le virtù anche più limpide invece hanno sempre un residuato di torbidità e quando l’amore ti lava il viso dalle lacrime, e quella donna è “lì”, tua, come un anello saldato al dito, dici: “non ho bisogno di niente, nemmeno di parole”. E scopri poi, nell’attesa di uno sguardo, che le parole ti gonfiano il petto, e come un cercatore di pepite, allinei su un tavolo i grezzi di oro, ai quali dai sempre un nome nuovo. E in una prospettiva teologica molto elastica, sarebbe divertente chiamare un inquilino ospite dell’inferno, per rimpiazzare il posto lasciato vuoto da un abusivo del Paradiso.
Altra idiozia. Prima media. L’insegnante di lettere detta la traccia del tema: Parla di un viaggio immaginario. Qualcuno (io) scrive di essere arrivato sulla luna e che le acque di un suo lago gli sembravano sfoglie di argento che si increspavano come la morbida pasta sotto le mani di sua madre, la domenica. “Dove hai copiato?”, gli urlò. E lui non scrisse più per due anni se non cose ovvie o parole-puttane
Oggi, nella pausa del mio tempo solo al rovescio, ho cercato di simulare i nostri respiri notturni, tu e io piccoli, piegati sui “grilli”[1] di fico e perastri stesi a seccare, e la capra cocciuta che si credeva un cane, e i nostri appuntamenti mai detti alla canicola, i tuoi artigli nello scuotere fili di rame rossa, e le mie arrampicate solitarie per legare cielo e morte prima di scoprire nei libri docili della scuola le poesie già fatte da me e da te, e pubblicate postume per errore.
Quando annusi la fine, perché hai avuto la sfortuna di non essere del tutto un idiota, avverti la banalità di parole dette e pensate, e la voglia vile di chiedere scusa e aiuto ti prende e non sai come e con chi regolare i conti; ma, scoperto che non sei un matematico, ma solo uno spiantato, atteso dalla fame di concime della terra, fai un rapido girotondo su ieri e oggi, e ti spacchi la mente appena disegni con le tenebre della fantasia il pericoloso e incerto gioco del futuro.
La mia nausea è qui: su questo tappeto mobile, che mi tiene desto e morto tra lo sfiancamento della ragione che chiede ricovero in Dio, e un lampo sfocato di piccola dignitosa solitudine, che mi sussurra di sor-ridere.
E sogno di sedermi su uno spigolo delle Ande, bere l’aria fresca del tramonto, masticare il tempo con una foglia di coca tra le gengive, e guardare l’abisso di vette senza tempo, immobili, che spengono fretta desideri e ricordi, e, quando il cielo si curva per fingerti una carezza, sopire su un giaciglio e perdersi nell’antologia di ombre e luci, le sentinelle guardiane della morte che bara…
Tenera è la morte… Richiama in modo civettuolo il titolo di un vecchio film, Tenera è la Notte, in cui le protagoniste sono le parole, che illudono e uccidono. In quel film, le parole volano come insetti, pungono, tradiscono, ma non hanno mai una sede, se non nelle bocche dei due protagonisti. Quando le parole, da una bocca passano ad un pezzo di carta, avverti lo scrupolo di aver lasciato una smorfia nel mondo…, e piangi…, ma è già tardi. Io sono certo che nessuno ha letto per intero i miei libri, a parte alcuni soggetti a rischio; e mi illudo, pertanto, di non aver creato seri problemi di empatia… ma rimane comunque il fastidio di aver ceduto ad una tentazione. Questa sezione, la dedico ai miei figli, ai quali ho insegnato, involontariamente, un’infanzia difficile. E a loro chiedo scusa.
Uno di loro mi dice che: “Noi viviamo questo tempo, e forse sarà un bimbo di nome Rocco a ricordarci i bei tempi passati.”
[1]Stuoie di paglia su cui si mettevano a seccare i frutti del perastri e di un tipo di fico nero, in estate inoltrata.